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corso Letteratura italiana ___ Boccaccio e il comico

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corso Letteratura italiana (Piermario Vescovo) Boccaccio e il comico

Scena, idest umbraculum, scilicet locus adumbratus in theatro et cortinis copertus similis tabernis mercennariorum que sunt asseribus vel cortinis operte, et secundum hoc posset dici a scenos quod est domus, quia in modum domus erat constructa. In illo umbraculo latebant persone larvate, que ad vocem recitantis exibant ad gestos faciendos1.

(Uguccione da Pisa, Magnae derivationes, fine XII sec.)

Antiquitus in theatro, quod erat area semicircularis, in eius medio erat domuncula, que scena dicebatur, in qua erat pulpitum, et super id ascendebat poeta ut cantor, et sua carmina ut cantiones recitabat; extra vero erant mimi ioculatores, carminum pronuntiantem gestu corporis effigiantes per adaptationem ad quemlibet ex cuius persona ipse poeta loquebatur; unde cum loquebatur, pone, de Junone conquerente de Hercule privigno suo, mimi, sicut recitabat, ita effigiabant Junonem invocare Furias infernales ad infestandum ipsum Herculem. (Pietro Alighieri, quarto-quinto decennio XIV sec.)

Fu ne' tempi di Platone e avanti, e poi perseverò lungamente ed eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li quali, per acquistare riccheze e il favore del popolo, componevano lor comedìe, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste cose state perpetrate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella età avea mescolati nel numero degl'idii; e queste cotali comedìe poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femine, della città ad udire. E non gli traeva tanto il disiderio di udire quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del comedo procedevano; li quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni, chiamati «mimi» , l'uficio de' quali è sapere contrafare gli atti degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal comedo, in quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone gli atti delle quali dovevano contrafare, e questi cotali atti, onesti o disonesti che fossero, secondo che il comedo diceva, facevano.

Fu ne' tempi di Platone e avanti, e poi perseverò lungamente ed eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li quali, per acquistare riccheze e il favore del popolo, componevano lor comedìe, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste cose state perpetrate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella età avea mescolati nel numero degl'idii; e queste cotali comedìe poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femine, della città ad udire. E non gli traeva tanto il disiderio di udire quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del comedo procedevano; li quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni, chiamati “mimi» , l'uficio de' quali è sapere contrafare gli atti degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal comedo, in quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone gli atti delle quali dovevano contrafare, e questi cotali atti, onesti o disonesti che fossero, secondo che il comedo diceva, facevano. E, per ciò che spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i comedi recitavano, di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle femine riguardanti a simili cose disiderare e adoperare; di che i buoni costumi e le menti sane si corrompevano e ad ogni disonestà discorrevano. 1

Cit. in Pietrini, p.158, che così traduce: “[Scena cioè] umbraculum, e dunque luogo ombreggiato nel teatro, e coperto con tende, simili alle botteghe dei mercanti che sono coperte con assi o tende, e perciò può essere detta da scenos, cioè casa, poiché era costruita come una casa. In quel luogo ombreggiato si nascondevano i personaggi mascherati, che alla voce del recitatore uscivano compiendo gesti”.

Perciò, acciò che questo cessasse, Platone, considerando, se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle città. Non adunque disse d'ogni poeta.

(Boccaccio, Esposizione sopra la Comedia)

era il teatro come un palazzo di mezzo cerchio ove i poeti faceano recitationi de’ valenti huomeni per animare il popolo a virtù e qui molte disputationi si fecero.

theatro è uno luogo comune ne la città sì come la piazza, la corte dove li cittadini si ragunano e ordinano loro consigli e questa era usanza in Grecia.

e così nel teatro erano due luoghi: uno per spazio contente li raguardatori; l’altro che chiamavano scena, era per lo poeta che recitava la favola o il fatto onde nasceva il giuoco. E quivi uscivano persone contraffatte in quello habito e habiti che richiedeva la materia.

Scena cioè un luogo dove uno gioco di gran diletto si facea.

ragunarono [li poeti] il popolo e li nobili in uno luogo detto scena e tante persone figuravano di quante elli voleano trattare ne la favola.

(glosse attribuite a Boccaccio volgarizzatore, di Valerio Massimo)

L’una adunque di queste da essere lodata con tutti i titoli habita nelle selve d’Allori et nel fonte Castalio, et in tutti i luoghi che conosciamo per religione degni di riverenza; è amica di Phebo, va ornata di fiori et ghirlande, et è molto notabile per la dolcezza del canto et soavità della voce. L’altra è quella che guidata dai poeti comici habita nelle scene, nei Theatri et nelli spettacoli [si veda come Betussi fa di tre termini due e introduce la categoria di “spettacoli”, nel senso di luoghi rappresentativi], et con scelerate fittioni per mercede si mostra benigna al volgo vile, et di nessuno ornamento lodevole è illustre. Questa non mitiga né sana le malattie degli infermi con la consolatione delle virtù, né con salutiferi né sacri rimedi, ma con querele et gemiti sino alla morte gli innalza con quella dilettatione con la quale si dilettano i presi delle passioni. Là onde a bastanza ponno vedere gli inimici dei poeti quello che non sapevano, cioè che Boetio mentre gridava le Muse essere meretrici egli havere voluto intendere della triviale spetie delle Muse; et però disse Scenice meretrici, il che chiarissimamente questi oppositori havrebbono potuto vedere se havessero inteso quello che dopo poche parole detto dalla Philosophia si legge. Dice in tal modo: Ma lasciatemelo da curare et sanare alle mie Muse. Et accioché più chiaramente si vedesse ch’egli parlava della seconda spetie delle Muse, molte volte nei seguenti scritti la Philosophia introduce alla cura et consolatione di Boetio le dilettationi dei versi et le fittioni poetice. Adunque, poscia che la Philosophia al suo arteficio congiunge quelle, egli è da tenere che siano honeste; et se sono honeste, et ancho quelli a’ quali sono famigliari (sì come vuole la produttione di questi tali) è di necessità che siano honesti huomini. Di che le Muse vengono ad essere honeste, et i poeti sono honestissimi, onde invano questi tali si sono sforzati con vergognosa infamia infamare né quelle né questi. Percioché le Muse non ponno essere oltraggiate perché l’ingegno del poeta sia cattivo et lascivo, che alhora questa sorte di Muse che a loro favorisce non è la buona né la vera.

Et per lasciare ultimamente gli altri ch’io contra la bestialità di questi [i detrattori] potrei addurre, non ha esso Signore et Salvator nostro parlato molte cose in parabole convenienti allo stile Comico? Non ha egli verso Paolo prostrato usato delle parole di Terentio, cioè: Egli ti è cosa dura calcitrare contra lo stimolo. Ma sia da me lontano che istimi Christo haver tolto queste parole da Terentio;

benché molto prima fosse di quello che fossero dette queste parole. A me basta assai, per fermare il mio proposito, il nostro Salvatore haver voluto, benché sia sua parola et sentenza, tal detto essere stato proferito per bocca di Terentio, accioché in tutto si deggia i versi dei poeti non essere cibo del diavolo. Che diranno hora questi illustri sbagliaffoni? Grideranno ah? Si leveranno contra i versi dei poeti, essendo reprovati dal suo medesimo testimonio? Et ancho essendo ripulsi et vinti dal testimonio di molti santi huomini?

Né da me fu mai tolta questa verità, che col testimonio de’ padri non creda quell’ultimo giorno haver a venire nel quale ritorneranno tutte le cose mortali in niente, et per opera eccelsa d’Iddio tutti ripigliando le nostre ceneri ritorneremo di novo in mortal corpo, sì come prima erevamo, ma eterni; onde venendo nel prefinito loco dove esso Christo giudice del tribunale sederà in maestà propria, et si vedranno i segnali della sua passione, et poi udiremo la finale et eterna sentenza de’ meriti nostri. Di che io similmente nella futura vita non per miei meriti, ma per misericordia divina spero veder Dio Redentore mio nella mia carne, et con i Beati viver lieto nella terra de’ viventi. Questa fede adunque sincera, per non parlare più oltre, et questa eterna verità, è di maniera fissa nel mio cuore che non pure puote essermi levata da nessuna forza di gentilità, ma né ancho in alcun modo crollata né macchiata. Percioché, se bene sono huomo peccatore, nondimeno per gratia di Giesù Christo non sono il Terentiano giovanetto Cherea, il quale veggendo depinto Giove che dai tetti in pioggia d’oro cadeva nel grembo di Danae, s’innanimò anch’egli nella disiata da lui scelerità. La liggierezza se n’è andata con gli anni giovanili, se però punto d’intorno alle cose dette ve ne fosse stato; il che non mi ricordo. Oltre ciò, considerando che con inganni continui et reti da ogni parte tese l’antico nemico ruggendo come Leone camina per l’orme dei mortali per ritrovare alcuno da divorare, sforzandosi di condurre tutti in ruina, io, come quel vecchio Mitridate Re di Ponto, il quale con magnanimo ardire et gran dispendi per quaranta anni continui contra il popolo Romano mantenne grandissima guerra et memorabile, dalla gioventù sua contra il mortale veneno si armò il petto di medicine et rimedi; medesimamente ho armato il mio dell’evangelica verità, con la sacra dottrina di Paolo et con i commandamenti, consigli et persuasioni d’Agostino et molti altri venerandi padri.

(Boccaccio, Genealogia deorum gentilium, traduzione cinquecentesca di Giuseppe Betussi)

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